Il Monte Crepacuore

Da Campocatino "passeggiata", facile, panoramica, aerea con poco dislivello e alla portata di tutti.


Quando mi sono trasferito nel Lazio, dal lontano 1985, a quel tempo la montagna non era ancora la passione di oggi quanto piuttosto una visione avventurosa del vivere la natura, tre montagne hanno colpito la mia fantasia; non ne avevo mai sentito parlare fino a quel momento e va a capire perché il monte Tarino, il Viglio ed il Crepacuore, le tre montagne cerniera mai ben definita tra i Simbruini, i Cantari e gli Ernici, sono entrate nelle mie mire fin da subito. Sia il Tarino che il Viglio mi hanno nel frattempo ospitato innumerevoli volte, il Crepacuore invece mi ha aspettato per la bellezza di trentuno anni ed oggi finalmente è arrivato il suo momento. Tanti progetti avevo costruito e immaginato per raggiungerlo, potevo scenderci dalla vetta del Viglio immaginando una lunga escursione di cresta, oppure potevo salirci direttamente, con un salto di più di mille metri e con una immersione totale nei boschi degli Ernici, da Grancia, dal versante della Val Roveto. E’ stata invece la più semplice delle vie quella che ho scelto per arrivare a toccare la sua famosa croce di vetta, una panoramica passeggiata di circa dieci chilometri, quasi totalmente in cresta, dalla piana di Campo Catino, con un percorso di saliscendi nemmeno troppo notevoli ad aggirare la profonda valle boscosa del fosso di Sant’Onofrio. Una classica direi, facile da approcciare, con un dislivello del tutto contenuto e continui cambi di orizzonti, dalle alte dorsali ciociare che sovrastano Alatri a quelle che sovrastano le prime piane abruzzesi sul versante opposto, dai Simbruini a Nord al cuore degli Ernici poco più a Sud. Siamo nel territorio montano degli Ernici, la sua propaggine Nord , rispetto ai vicini Simbruini ed Ernici è il tratto di dorsale più stretta e più accessibile, unisce come una sinuosa cresta i due gruppi senza essere esattamente degli uni e degli altri; facilmente, soprattutto se si parte come abbiamo fatto noi dai 1800 mt di Campo Catino, si arriva alle creste e alle tante cime che sfiorano i duemila metri, e subito si potrebbe riscendere per raggiungere il versante opposto in terra abruzzese. Una vera “stretta” cerniera, quasi un sottogruppo a se stante, e mi piace pensare che sia questo il motivo per la difficile collocazione geografica di questo lembo di montagne. Sono certo che se mi leggeranno i guarcinesi potrebbero anche offendersi orgogliosi come sono delle loro radici erniche, non è una espropriazione la mia, piuttosto una riflessione ulteriore per collocare definitivamente e porre i confini tra Simbruini, i minuscoli Cantari e gli Ernici. Siamo partiti come detto da Campo Catino, in estate solitario e silenzioso quanto devastato avamposto del turismo invernale. Saliamo i centocinquanta metri della deturpata cresta del Vermicano, appena sotto la linea di cresta scorre la larga lingua sassosa che scende dalla vetta, una delle poche piste da sci del comprensorio; in altro rovine di costruzioni di servizio agli impianti denunciano una incuria che va oltre la logica dell’economia locale. Ciò che rimane di vecchi locali di servizio sono a dir poco pericolosi, ferri arrugginiti disseminati ovunque spuntano da terra senza protezioni o avvisi di pericolo, agglomerati di mura crollate gli fanno da contraltare, basterebbe davvero poco per non acuire questo senso di abbandono e per far andare d’accordo prospettive e speranze turistiche col rispetto e l’amore per il territorio. Vincono ancora vecchie logiche dove tutto ciò che è solo onere non fa profitto. Se non fosse per questi scheletri e per gli impianti di risalita la vista dalla vetta del Vermicano sulla piana carsica di Campo Catino e non solo, sarebbe di grande impatto; una volta su si aprono scenari notevoli, sulle colline ciociare e sui Lepini ad Ovest, un vedo non vedo affascinante tra le tante nubi frastagliate che stazionano a quote più basse, sulle tante montagne degli Ernici settentrionali che sfiorano i duemila metri, dai vicini Peschio della Cornaccia e Pozzotello fino alla Monna e all’Ortara; ad Ovest la lunga cresta che andremo a percorrere fino al Crepacuore e al più alto Viglio che accompagna lo sguardo sulle confuse e scure rotondità dei Simbruini. Scendiamo sempre in cresta sull’altro versante, purtroppo ancora su una strada di servizio, verso Ovest, verso il Peschio della Cornacchia, fino al “Cacciavento” una curiosa costruzione in vetro posta sul valico; questa opera, due lastre semicircolari in vetro, poco più alte di una persona, poste a formare un angolo di 90° con una feritoia di pochi centimetri al vertice, in certe ore della giornata ed in certe condizioni meteo, soprattutto la mattina poco dopo il sorgere del sole, quando i venti si dispongono dalla montagna verso il mare ad Ovest, riesce, convogliando i venti, a restituire oltre la feritoia un flusso d’aria così potente che in certe condizioni riesce a stendere una persona che osa contrastarla. Una curiosità, nulla d’altro, una attrazione comunque che va apprezzata come spinta motivazionale a frequentare la montagna. Sempre sul filo di cresta scendiamo sulla destra, verso Sud, fino a raggiungere le pendici del Peschio della Cornacchia; un bandierina CAI a terra indica un sentiero che taglia la montagna sul fianco Nord, la sottile linea del sentiero era già ben visibile fin dal “Cacciavento”. Ci infiliamo su questo breve tratto di sentiero contraddistinto da importanti fioriture di magnifici Doronici di Colonna, risaliamo il breccioso pendio mai troppo ripido, ci alziamo sulla sottostante valle boscosa per arrivare sulla sella rocciosa che abbiamo davanti, gli scenari ora sono ben altra cosa, la cresta che sale al Peschio della Cornacchia vibra ora di montagna, più sottile con dei salti erbosi e rocce che precipitano sulla piccola ripida pagina Est. Il sentiero continua aggirando la montagna, al limitare del bosco in una serie di piccole valli, popolate di Ginepri e Genziane dinariche, comunemente chiamate appenniniche e le più minute Genziane Verna comunemente “primaticcia”. Lasciate alle spalle le devastazioni di Campo Catino, il sentiero attraversa dei tratti che non avrei difficoltà a definire onorici dove a dominare è il verde intenso dei prati, interrotto solo dalle tante fioriture; la testa delle valle si va chiudendo in una conca contornata da dorsali rocciose dove al centro sorge la fonte del Pozzotello, diventa uno scrigno isolato dove il silenzio fa rumore. In sintonia ora con ciò che ci circonda scendiamo lentamente fino alla fonte fermandoci ogni tanto per vivere questo spicchio stupendo di natura. Raggiungiamo la fonte e le ormai abbandonate costruzioni, penso dell’ENEL, perché all’interno ci sono abbandonate delle apparecchiature elettriche, con dei fili a penzoloni; le apparecchiature abbandonate all’interno di una gabbia non destano pericolo particolare, segnalerei invece la necessità di far attenzione, soprattutto se si hanno a seguito bambini, alla vicina e buia vasca dove si sente scorrere acqua ma dove non è possibile vederne i dettagli, una balaustra davvero minima protegge dal pozzo prospicente, buio, di certo poco profondo ma comunque poco rassicurante. Prima di arrivare alla fonte, da dove evidentemente l’acqua filtra nelle zone circostanti, un umido prato di un verde profondo come poche ho potuto vedere ospita una distesa di vistosissime Cinquefoglia di Grantz, scientificamente la “Potentilla Crantzii”, graziosi piccoli fiori gialli che su questo scuro prato contrastano quasi a restituire luce. L’acqua alla fonte ha un getto copioso, la costruzione è nuova, dedicata a qualcuno che forse su queste montagne, oltre che amarle ha anche passato tanti bei momenti. Aggiriamo la fonte e proseguiamo sul versante opposto da dove siamo venuti, sotto il breccioso Peschio delle Ciavole, il sentiero è ben marcato, fila in leggerissima salita fino al vicino valico della Selvastrella, una larga dorsale brecciosa dove l’affaccio da sulla Val Roveto. Si intuisce il laghetto sopra Grancia e da questa sella parte il sentiero che lì conduce, il sentiero che attraversando la montagna e passando per il Buco del Cauto porta all’anfiteatro di Zompo lo Schioppo. Il Crepacuore è là davanti, continuando in cresta, la cima culminante delle tante che lentamente salgono di quota; il sentiero sfila a mezza costa, sopra l’ampia boscosa valle solcata dal fosso di Sant’Onofrio. Seguiamo pigramente il sentiero, ogni tanto sale di quel pò che basta a far avvicinare la nostra montagna, ogni tanto traversa; si perde nei prati oltre i 1900 mt dove si iniziano a vedere le prime orchidee (Orchidea di Spitzel). La piccola valletta erbosa dove ci siamo infilati è fresca e in alto per brevi tratti più ripida, forma alcune piccole piatte conche dove sarebbe bello stendersi e lasciarsi abbracciare dalla leggera brezza di quota; la sagoma della croce poi prende a far parte dell’orizzonte là in alto, rimane poco da salire, finalmente sono su questa montagna dalla croce importante, per soli tre metri non raggiunge i 2000 mt, una montagna che mi aspetta da più di trenta anni. E’ sottile e piena la mia felicità. Per un po’ rimango concentrato sulla vetta, sulla croce, su quanto è nelle immediate vicinanze della vetta; mi colpisce il versante Est che scende ripido, tra piccole scarpate e rocce, ogni niccia erbosa è un cuscino di piccoli fiori gialli che credo essere gli Sferracavallo comuni, per la scienza gli Hippocrepis comosa. Le nuvole insistenti e scure sono persistenti verso Nord, coprono sistematicamente il Viglio la cui presenza è però perfettamente tangibile e incombente; verso nord il Crepacuore riscende, per un tratto proseguiamo sulla cresta fino allo sperone a quota 1858 mt, oltre continua a scendere più ripida fino a al monte di Femmina Morta una anonima vetta ricoperta da bosco fino alla sua cima posta a 1720 mt. Le nuvole si fanno più insistenti, portate dal vento salgono dal versante Ovest e si fermano a ridosso della cresta; lo stesso accade sul Viglio che non è mai scoperto completamente. Eravamo su un osservatorio speciale per studiare il resto del percorso, tutto in cresta, si oltrepassa la vetta del femmina Morta per raggiungere la sottostante e vicina sella, un vero incrocio di sentieri; a destra una carrareccia riporta fino a Grancia, Zompo lo Schioppo, proseguendo diritti e poi sulla chiara dorsale boscosa che tende a sinistra, si sale fin sulla dorsale principale che conduce, in un’unica soluzione, in vetta al Viglio, un bello strappo di cinquecento metri in costante salita, mentre a sinistra, per il vallone del Pratiglio, si scende verso il vallone di Sant’Onofrio da dove un sentiero dovrebbe ricondurre a Campo Catino. Insieme alla via dell’andata questo poteva essere l’anello per rientrare, una doppia opzione che ci siamo lasciati fino all’ultimo, poi una leggerezza mi ha tradito. Preso dal fotografare i tanti fiori sono sceso dalla vetta del Crepacuore senza zaino, l’ho lasciato lasù, per essere più libero e perché convinto che il tempo che si andava chiudendo ci avrebbe costretto a seguire la via più veloce per il rientro cioè la stessa dell’andata. La tentazione forte di continuare che leggevo anche in Marina si è infranta nella necessità di recuperare lo zaino; sarei salito e ridisceso ma non ci è parso ragionevole indugiare ancora visto il cielo che si andava chiudendo minacciosamente. Siamo quindi risaliti e da li abbiamo ripreso il ritorno, questa volta mantenendoci sul filo di cresta; molto panoramico, da una parte i 1900 che si susseguono fino a Campo Catino e dall’altro il versante che scende ripido, boscoso e chiuso da sfilacciate nuvole che a tratti arrivano anche ad investirci. Abbiamo percorso tutta la cresta fino allo sperone a quota 1905 mt dove oltre i boschi sprofondano ripidi nei fondi di Collalto, una valle fitta fitta di boschi che scende di circa quattrocento metri di quota. Seguiamo la dorsale verso Ovest fino a raccordarci col sentiero dell’andata, in mezz’ora siamo al valico della Selvastrella e poco dopo di nuovo alla fonte. Dalla fonte saliamo ripidi il ghiaione di fronte, un sentiero lo taglia diagonalmente e solo l’ultimo tratto, prospicente all’uscita in cresta sulla sella tra il Peschio della Cornacchia ed il Pozzotello, si fa ripido. Nel frattempo il sole è sparito del tutto, le nuvole hanno ingrigito la giornata e si sono abbassate, il vento ha iniziato a soffiare fresco, solo qualche goccia di pioggia avverte del rischio ma quella vera si tiene lontana. Sfiliamo sotto il Peschio della Cornacchia, ormai il sentiero è di nuovo una strada di servizio, raggiungiamo ancora il “Cacciavento” e continuando a seguire la strada entriamo nella piana di Campo Catino. La attraversiamo sfilando ancora accanto a diroccate strutture che un tempo potevano essere bar o punti di ristoro ed oggi monumenti all’ignoranza e inciviltà dell’uomo e raggiungiamo l’auto. Una lunga passeggiata, se si vuole una breve escursione, circa dieci chilometri per un dislivello di poco superiore ai cinquecento metri. I numeri però nascondono e non esaltano una escursione degna di essere fatta, in grado di regalare scorci notevoli e angoli suggestivi, fioriture coloratissime e soprattutto davvero alla portata di tutti. Penso a quei genitori che desiderano far fare il primo approccio ai figli verso la montagna senza correre il rischio di sopraffarli dalla stanchezza e assicurandogli comunque una bella avventura.